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La grotta della cupidigia

 

La grotta della cupidigia

 

 

 

 

 

La nonna ci faceva leggere le vite dei santi. Prima di noi credo che le abbiano lette anche i cugini Krietsch e Bates, figli delle sorelle di mio padre, Beatrice e Laura, sposate rispettivamente con un soldato tedesco di Magdeburgo e con un ufficiale americano, conosciuti durante la guerra.

 

 

Beatrice aveva studiato il tedesco all’Orientale, prima fra le donne del ramo Mingo ad esercitare quel talento linguistico ereditario che già aveva permesso ai suoi zii Corrado, Carlos e Enrico di circolare in terre arabofone e ispanofone e a suo padre Nicolò di redigere in varie lingue le sue avveniristiche pubblicazioni scientifiche. L’iperattività minghesca era in lei aggraziata da una carica vitale positiva, da un sorriso radioso, da una curiosità di scoperta con cui affrontava gli eventi della vita. “Una farfalla che svolazzava di fiore in fiore” secondo la definizione di suo fratello Carlo. La scelta del campo fu per lei al contempo affettiva, per il legame che la univa al nonno Nicolò fascista convinto, casuale, perché fra tutte le lingue era attratta proprio dalle rudi sonorità teutoniche, e contingente per il suo desiderio di agire e di avere contatti, facilitato in quegli anni dalla “collaborazione” con l’occupante – anche lei, come il nonno, alla Liberazione avrebbe avuto qualche noia, seppur di entità minore.

 

 

 

Sua sorella Laura aveva un temperamento artistico, studiava all’Accademia; aveva ereditato il gene pittorico Pellegrino-Montesanto della nonna  ma era anche dotata di un certo senso pratico, di una débrouillardise attivata probabilmente per compensazione dall’idealismo inconcludente del nonno, che alla liberazione era stato recluso nella Certosa di san Martino per la sua professione oltranzista di fede al fascio, lasciando per vari mesi la famiglia nel’indigenza.

Archimede dopo l’armistizio era stato deportato da Bolzano con i suoi commilitoni in uno stalag tedesco dove sarebbe rimasto fino alla fine della guerra, Enrico si era sposato e aveva già il primo figlio, Giovan Battista, e  mia cugina Margherita in arrivo, Maria e Carlo erano troppo piccoli per lavorare, la nonna e zia Stella appartenevano a una generazione in cui le donne restavano in casa. Così la giovane artista siciliana si inserì nell’economia di sopravvivenza del popolo partenopeo realizzando ritratti di militari in un circolo di ufficiali statunitensi. Dalle foto formato francobollo di quell’epoca di ristrettezze ricavava quadri  50×70, applicando tecniche di ingrandimento di cui il bisnonno Francesco, pioniere della fotografia, sarebbe stato certamente fiero se non si fosse spento prematuramente. Un aneddoto familiare riferisce di un americano insoddisfatto che le scrisse un biglietto sul genere “Signor l’artista, gli ochi è tropo picolo, la facia tropo ronda” (dalla scelta dei vocaboli suppongo che in realtà fosse un canadese francofono o un americano che aveva studiato il francese), ma in genere i suoi ritratti riuscivano bene, procurandole guadagni e relazioni amichevoli con i liberatori.

 

Così conobbe zio Jim, ufficiale nell’esercito statunitense. Zia Laura aveva avuto la polio da piccola e zoppicava, ma all’epoca il fatto non rappresentava un problema significativo, avere una diversità o una cicatrice faceva parte della varietà delle possibilità della vita, anzi in un certo senso rendeva meno banali. Nella prima foto che inviò ai suoi dall’ospedale del Celio dopo essere stato ferito in Libia da una granata inglese mio padre sfoggiava con cupa fierezza il mento sfregiato.

I miei cugini Ann e Mark sono nati negli USA, in Virginia, poi per un periodo sono tornati a Napoli, dove negli anni 60 zio Jim era di stanza alla base Nato a Bagnoli. Nel mio ricordo mitico questi ragazzini alti e affascinanti dall’accento americano ci sorprendono uscendo dai finestrini

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posteriori dell’auto che si aprivano già completamente, a differenza di quelli delle goffe auto italiane di allora la cui apertura a manovella permetteva di abbassare il vetro solo fino a metà.

 

Beatrice intanto si era sposata con zio Karl. L’appartenenza agli opposti schieramenti bellici non impedì in alcun modo l’amicizia e la solidarietà tra i due cognati, al punto che alle prime avvisaglie della sovietizzazione della Germania Est e dell’edificazione del muro i Bates invitarono i Krietsch a seguirli in America, dove le due famiglie si stabilirono definitivamente.

 

Ma ci fu un periodo, prima della partenza definitiva di Laura e Beatrice, in cui tutti i miei cugini abitarono a Napoli. Klaus e Clelia sono nati qui, nel 1949 e nel 1951. Ann e Mark ci sono tornati a vivere per diversi anni, con i genitori.

 

 

Quindi senz’altro la nonna avrà fatto leggere anche a loro le vite dei santi. Ann, Mark, Klaus, Clelia, e chiaramente anche i figli di zio Enrico, Margherita, Gianni, Mario, Silvia, Eugenio, prima di disperdersi per il mondo tutti i nipoti Mingo-Pellegrino hanno interiorizzato il sottofondo religioso siciliano, l’humus originario trasmesso da nonna Margherita.

 

Gli unici che non hanno avuto quest’imprinting sono Carla e Chris, nati più tardi negli States, e Nicola, la cui alfabetizzazione coincise con la decadenza delle condizioni fisiche della nonna.

Ma magari esisterà un’altra forma di trasmissione, per interposti fratelli o filogenetica, che ha modellato anche loro sulla stessa frequenza.

 

Di queste vite dei santi ricordo un messaggio di sopportazione, eroismo, impassibilità nella sofferenza. Ricordo anche che non amavo leggere ad alta voce, leggevo a mente molto in fretta e questo alla nonna non piaceva, pensava che imbrogliassi – una prevenzione dettata forse da diffidenza verso i vulcanici Mingo, il cui esponente a lei più vicino l’aveva in qualche modo raggirata, seducendola con un’intelligenza che si sarebbe rivelata priva di ricadute positive sul desco familiare e consegnando in tal modo lei ad un destino di santità e privazione.

 

Così mio fratello Antonio, più mite e riflessivo, fu designato per la lettura ad alta voce, che lo temprò alle sfere mistiche e meditative.

 

 

A volte invece la nonna ci faceva leggere delle storie orrorifiche, sempre a sfondo morale o religioso, come quella del bambino che si rompe tutti i denti a colpi di pietre per cambiarli subito e poter fare la prima comunione. Tra queste, quella che esercita ancora oggi una morbosa suggestione su di me parlava di una grotta proibita.

 

La grotta dei tesori.

 

La grotta, sotterranea, era piena di tesori luccicanti. Oro, argento, pietre preziose, diamanti, rubini, smeraldi. I personaggi, due o tre, sapevano che non bisognava farsi accecare dalla cupidigia, che bisognava rinunciare ai gioielli e uscire in fretta, perché un rischio incombeva sugli incauti visitatori, se qualcuno avesse cercato di impadronirsi del tesoro le pareti si sarebbero richiuse su di lui in un tempo brevissimo.

 

Nel mio ricordo forse uno getta via la bisaccia e si salva, invocando inutilmente gli altri due che avidamente continuano a riempirsi le tasche, storditi dal luccichio delle pietre e dalla quantità di ricchezze.

 

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Poi con un rombo terrificante le pareti dell’antro si richiudono, inghiottendo per sempre gli avidi predatori nelle viscere della terra.

 

Nella leggenda dei Nibelunghi Sigfrido apprende dal nano Alberico che il tesoro della grotta, a cui egli solo può accedere avendo ucciso il drago, è latore di sventura per chi lo sottrarrà. Riflette sulle invidie e sui rischi a cui lo esporrebbe il possesso di tali ricchezze e lo lascia lì, anzi no, porta via solo quello che una piccola bisaccia può contenere.

Un invito quindi non alla rinuncia e all’ascetismo totale, ma alla moderazione.

 

Anche nella caverna di Ali Babà i più avidi restavano imprigionati.

 

Ho cercato traccia di questa leggenda sicula su internet: ne ho trovate altre che parlano di tesori e di grotte. La truvatura, tesoro nascosto in un nascondiglio, quasi sempre una grotta.

 

Una contrada spaventosa, dove due o tre fratelli o amici bramosi si uccidono tra loro per impadronirsi del tesoro.

 

La grotta di Vitusullano, che si raggiunge percorrendo la Vaneddra degli Incantesimi a Canicattì. Per accedere al tesoro bisogna essere in due, e dello stesso sangue. Il suolo si squarcia appena qualcuno entra nella grotta. A mezzanotte si risvegliano i guardiani del tesoro e bisogna fuggire.

Non si riesce mai a portare fuori i preziosi, o allora solo poche monete d’oro che al ritorno si trasformano in pietre, o in altri oggetti senza valore.

 

L’origine è sempre araba. Vito Soldano era il comandante dei Musulmani invasori; il frutto delle loro razzie fu nascosto in una grotta per un incantesimo del Mago Saraceno, e varie leggende fiorirono attorno al tesoro maledetto.

 

Il castello dei principi di Biscari, nei cui sotterranei invece restano pietrificati, al primo contatto con le monete e con le pietre preziose, tutti coloro che tentano di sottrarre il tesoro.

 

La truvatura di Monte Scuderi, con una serie di prove bizzarre da superare, come farsi leccare il viso da un serpente senza scomporsi, o filare, torcere e biancheggiare un filo di lino con cui bisogna tessere entro l’alba un tovagliolo.

 

La truvatura della sarpa di Acireale, con vari litri di vino da bere e di nuovo il serpente sbavone da sopportare senza batter ciglio.

 

Una che parla di arti amputati. Il bene più prezioso è l’uso del proprio corpo, per chi lo sa apprezzare.

 

Altre che menzionano sacrifici propiziatori. Sacrifici edilizi. Nella contea di Modica, un giovinetto seppellito sul luogo in cui deve sorgere un edificio.

 

Ho pensato anche a reminiscenze di terremoti, in Sicilia terra sismica chi è troppo attaccato ai beni materiali e si attarda sui luoghi del disastro per prelevare oggetti perisce fatalmente con la casa che crolla.

 

In una terra e in un’epoca in cui la vita poteva concludersi tragicamente per un colpo di vento, la rassegnazione religiosa confinava con il misticismo. E’ il contenuto di molti dei santini del diacono Peppino, zio della nonna, animato da fervente fede religiosa, morto di tubercolosi a 37 anni. ”Signore liberaci dalle vanità della terra” ecc.

 

 

Mio padre diceva che la storia era in un vecchio almanacco di quelli che leggeva la nonna. Io conservo solo qualche annata di inizio secolo de La madre cristiana, lettura prediletta della bisnonna Lorenza Montesanto (un bollettino un po’ melenso per pie dame, ma bisognava pure che in qualche modo le donne iniziassero a leggere e a esprimersi pubblicamente), e delle guide del Touring della stessa epoca (appartenute a chi?), da cui ho appreso che nel 1908 in Campania circolavano in tutto 137 automobili, quante ce ne saranno oggi parcheggiate a Napoli in piazza degli Artisti (e in Sardegna ce n’erano 4, e in Basilicata neanche una…). Sarà stato buttato via nel 1972, quando sono morti i nonni? Nel 1987, quando è morta zia Stella? Mi ricordo che salvai i santini del prozio sacerdote don Peppino Montesanto ma gettai il suo messale tutto sbrindellato, che bestie che eravamo allora, a saperlo… Forse invece questi almanacchi ingialliti erano a casa di zia Maria (grande buttatrice delle cose vecchie in gioventù e attenta conservatrice in vecchiaia), o di zio Enrico, e qualche cugino o cugina li custodisce ancora?

 

Dei racconti della nonna mi è rimasto un senso di estraneità e di alienazione nei supermercati e un certo disgusto in estate nelle pasticcerie, un immotivato impulso alla fuga davanti alle vetrine traboccanti di creme multicolori.

 

Cari cugini d’oltreoceano, se anche voi vi sentite strani quando mettete piede in un megacentro commerciale, se avvertite ancora oggi un senso di vertigine, angoscia e vacuità davanti agli scaffali colmi di prodotti superflui, non perdete tempo con la decrescita, i no-global e la coscienza ecologica: tutto deriva in realtà dall’imprinting ancestrale di nonna Margherita.