Animali familiari
Animali familiari
Chiunque sia stato anche solo un giorno a Nicolosi, paese alle pendici del vulcano più importante della Sicilia – definito per questo a giusto titolo “la porta dell’Etna”- si sarà reso conto della abnorme pendenza delle strade e della dotazione fisica necessaria per percorrerle – quadricipiti torniti, polpacci scattanti, fisico resistente e asciutto. Dopo essersi inerpicati su e giù per il paese dei miei antenati, a fine giornata ci si sente molto simili ad una capra.
La sensazione non è nuova, l’ho già provata ad Alicudi, isola di scale di pietra, dalla vegetazione secca e bruciata, a cui le automobili non hanno accesso.
E’ lì che il mio gene-capra ha cominciato ad esprimersi, ad affermare i suoi diritti, a farmi comprendere meglio alcuni episodi dell’infanzia.
Da bambini una o due domeniche al mese mia madre ci faceva lavare i piedi e mettere dei calzini bianchi, il che significava che saremmo andati a pranzo dalla nonna Margherita. A casa dei nonni, oltre ai primi piatti che ho rimosso completamente, c’erano per secondo due menu possibili, che si alternavano: le polpette al sugo preparate da zia Stella, morbide, deliziose, galleggianti in un mare di salsa, e il capretto con le patate, secco, durissimo, tanfoso, per me immangiabile ma che comunque mandavo giù per educazione, perché noi siamo una generazione che ha sofferto molti sensi di colpa per la penuria altrui e per le guerre passate, e poi non si poteva dire ai nonni “non mi piace” – il massimo del sacrificio gastronomico era un appiccicoso parallelepipedo di cotognata che ci offriva il nonno, densissimo, una consistenza simile a pasta salda, che pure veniva deglutita senza far trasparire stati d’animo fino all’ultimo boccone.
Ma per la carne della capra, che già avevo visto viva e prigioniera nello stanzino a casa degli altri nonni in un’epoca di doni rurali dalle campagne, la repulsione aveva motivi più profondi.
Quelle creature timorose dalla voce tremula, l’occhio orizzontale, le zampette sottili eppure capaci di incredibile equilibrio erano mie simili. Osservandole da vicino ho poi subito il fascino del loro karma, annusare le vette e arrampicarsi umilmente nella solitudine. E anche una certa trasversalità mentale, quel balzo funambolico da un contenuto all’altro che prelude alla scrittura.
Per cui la nonna mi ha fatto ingerire il mio animale-totem, una sorta di cannibalismo, ma poi studiando le tradizioni africane ho scoperto che ciò rafforza. Quel capretto con le patate mi ha fornito degli strumenti di sopravvivenza: nei giorni di sciopero o di traffico bloccato nella mia città, anch’essa vulcanica e ugualmente dotata di salite e discese, alcune altrettanto vertiginose, il gene-capra sprigiona tutta la sua potenza e mi dà l’energia per risalire a casa a piedi “da giù Napoli”.
A parte questo, per quanto riguarda gli animali domestici che accompagnano più comunemente la vita dell’uomo, l’iconografia zoologica familiare testimonia accanto ai Mingo una presenza costante del gatto; e nella famiglia Mingo anche i gatti si distinguono per acume e bizzarria: Pampirula che usciva di casa lanciandosi dal secondo piano, Mimì che aveva imparato ad aprire le porte con le zampe, saltando sulla maniglia, Ketty che invece era un po’ tonta e davanti a una porta chiusa girava in tondo su se stessa sperando che la situazione cambiasse al giro seguente e che però si distinse per longevità, campando per venticinque anni…
Le immagini: le impronte di gatto nel cielo nel quadro con la veduta di San Martino.
Il gatto che gioca con l’uovo – uguale a Natalino. –epoca:già in una foto anni 30?
Natalino ronfante beato con un bicchierino in testa.
La Frufrulla egizia. Ma non vorrei sconfinare.
Ma l’immagine più antica è quella della nonna e zia stella da bambine con la mamma e lo zio Cristoforo nel cortile di Nicolosi. Un po’ in disparte, il trisnonno tiene un animale sulle ginocchia.
A prima vista sembra un gatto.
Ha il formato e le sembianze di un gatto.
Ma ingrandendo l’immagine e osservandola meglio si vede che invece è un cane.
Un piccolo sgraziato botolo, un miscuglio di razze indecifrabile, dalla testa sproporzionata, le orecchie pendule, il corpo minuscolo, che il trisnonno Salvatore stringe con affetto.
La foto è del 1895.
Il trisnonno aveva 84 anni ed era vedovo da cinque.
Ancora un piccolo dettaglio, una notazione affettiva trasmessa da una foto scattata dal bisnonno Francesco.