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I dagherrotipi del bisnonno Francesco

 

I dagherrotipi del bisnonno Francesco

 

 

Il bisnonno Francesco Pellegrino era fotografo, “dilettante” precisa sul retro delle sue stampe, il che significa che fotografava per diletto, per puro piacere, e non per necessità economica.

All’epoca l’hobby doveva essere costoso, siamo attorno al 1880 e la tecnica prevede l’utilizzo di gelatina ai sali d’argento per fissare l’immagine sulle lastre di vetro, oltre ovviamente all’attrezzatura fotografica vera e propria; si può presumere che Francesco dovesse ordinare sul continente i materiali per lo sviluppo e la stampa. Sappiamo che la famiglia era benestante, proprietari terrieri, ma per ottenere risultati congrui da questo passatempo all’avanguardia non bastava possedere il denaro. L’attività fotografica richiedeva una maestria tecnica non indifferente, nulla era automatico e tutto andava calcolato con precisione, pena la riuscita imperfetta delle immagini.

Prima che Francesco si dedicasse alla fotografia i suoi familiari si rivolgevano a fotografi professionisti per i loro ritratti. Può sembrare strano, ma la qualità di una foto d’epoca può essere molto variabile. C’è una foto dei suoi genitori appena sposati realizzata a Catania nel 1856, nello studio Real Fotografia dell’artista Antonio Camrinafici, Strada Stesicorea n. 20; l’immagine è nitida, la grana è densa e ingrandendo la foto al computer si apprezzano i dettagli senza perdere in definizione.

 

 

Osservando l’ingrandimento con attenzione si vede che sua madre, la trisnonna Margherita, ha gli occhi chiari, con la stessa espressione ingenua della nonna da bambina; e essendo una Montesanto possiamo presumere che avesse anche i capelli rossi.

In altri casi invece l’imperizia ha effetti disastrosi. Nella foto (anonima) della famiglia Montesanto in occasione dell’ordinazione del figlio Giuseppe, primogenito di Salvatore e Maria Stella Barbagallo e fratello della bisnonna Lorenza, i personaggi sul lato sinistro della foto (il diacono Giuseppe e suo padre Salvatore) sono sfocati; i loro tratti somatici non si distinguono. Le due persone sul lato destro (Lorenza e sua zia Margherita, sorella di Salvatore) sono a fuoco, ma il deterioramento della carta le rende poco visibili; in conclusione, dalla foto si può solo intuire la bellezza giovanile di Lorenza e un vago sorriso di sua zia, mentre il protagonista dell’evento e suo padre sono senza volto.

 

 

Tutto sembra congiurare per far perdere la memoria del diacono Peppino, che morirà giovane, a 37 anni, per una tubercolosi contratta curando gli ammalati: del suo ritratto singolo, realizzato in quello stesso giorno con una messa a fuoco corretta (e di cui non ci è giunta nessuna stampa), la lastra andò perduta.

Francesco all’epoca aveva tredici anni e non possedeva ancora un’attrezzatura fotografica.

 

Dopo la morte di Peppino, l’unica immagine che la famiglia conservava di lui era quella foto senza negativo.

Francesco, che intanto aveva iniziato a fotografare e ad apprendere le tecniche di realizzazione e sviluppo di negativi su lastra ai sali d’argento, riesce a riprodurre su vetro la foto del cugino, appendendo il quadretto ovale a una parete e fotografandolo da una certa distanza con il fuoco fisso.

La dimensione dell’immagine è minuscola, un paio di centimetri su una lastra 10-15.

Aveva già previsto l’evoluzione della tecnica, la digitalizzazione delle immagini, lo scanner?

Puntino quiescente sulla lastra – che nel frattempo si era anche spaccata ma per fortuna in una zona non critica – segno misterioso da interpretare, grazie a lui, a centoventi anni di distanza, l’immagine dello zio Peppino Montesanto è stata recuperata e ingrandita.

 

 

Mostra un giovane dal volto malinconico, puro, serenamente votato al sacrificio, con gli occhi già cerchiati da un alone azzurrino, presagio di una fine prematura.

 

Francesco trasmette a sua figlia Margherita l‘attenzione all’immagine e la necessità, il desiderio, il piacere di fissare il ricordo. Da uomo moderno ha scelto la fotografia, con la sua doppia componente tecnica e artistica.

E’ anche grazie al suo imprinting che la nonna impara poi a dipingere e traspone la realtà nelle sue tele.

 

 

Sono reminiscenze agresti di un passato perduto, soggetti religiosi, nature morte, queste ultime con un uso sorprendentemente realistico della luce e del colore.

Nel corso degli anni i soggetti della nonna sembrano stamparsi in una fissità rassegnata; per i rispettivi matrimoni, regala alle nuore dei quadri che raffigurano un fiasco rotto, un  finocchio spezzato, un limone spremuto… inconscia metafora della vita matrimoniale, con l’uscita dal sogno dell’infanzia e la felicità infranta sugli scogli della vita.

 

 

Mentre la cugina Stella Montesanto, che ha studiato a Bologna all’Accademia di Belle Arti, dipinge soggetti esotici, uomini col caffettano a righe e col turbante e volti di donna espressivi e moderni, la nonna si concentra su soggetti circoscritti e familiari: il gatto che gioca con l’uovo, le arance avvolte da volute concentriche di buccia e il coltello di metallo che è servito a sbucciarle…

 

 

Francesco sceglie la fotografia per fermare la morte, per lasciare una traccia che vada oltre l’oblio.

Della piccola Maddalena, la sua sorellina morta a pochi mesi, non ci sono immagini, fa parte del non rappresentabile, forse anche dell’indicibile; di Giuseppe, suo cugino e cognato, riesce a salvare un negativo, perché la memoria non scompaia.

 

 

Appena sposato ritrae i suoi antenati e suoceri Montesanto, fermando così l’immagine di Maria Stella Barbagallo, che morirà di lì a poco (la foto su ceramica al cimitero di Nicolosi è tratta dallo stesso cliché), e di Salvatore Montesanto, vecchio patriarca che vivrà invece fino a 94 anni.

 

 

Fotografa i suoi figli sul seggiolone, o in posa in abiti particolari, o con costumi tradizionali.

C’è un solo cliché della nonna Margherita neonata, nel 1890, sorridente su un seggiolone a fiori. A quell’epoca in bisnonno lavorava anche in esterno con un professore universitario, probabilmente un geologo o un botanico: in una lettera alla moglie parla di un’escursione di gruppo al castagno di cento cavalli per realizzare un servizio fotografico. Ma di queste foto non c’è traccia.

Riprende a fotografare i figli alla nascita di zia Stella, quando la nonna ha già 4-5 anni.

 

 

 

 

 

E’ di quell’epoca, 1895 circa, la foto con il costume da pastorella da cui anni dopo la nonna trarrà un autoritratto.

Della stessa epoca anche l’unica sua foto in esterno, il cortile di casa Montesanto a Nicolosi con un gruppo familiare. Di questa non ho la lastra ma la stampa, molto deteriorata. Si vedono la nonna Margherita e zia Stella bambine con la madre Lorenza e lo zio Cristoforo, e un po’ in disparte il trisnonno Salvatore con un giovane alto e magro dai capelli neri che potrebbe essere lo zio Domenico Pellegrino.

 

 

Poi c’è un’altra tornata di foto, l’ultima, con Margherita più grande, un po’ imbronciata in un vestito merlettato, e suo fratello Peppino col cappello.

 

 

Davvero le ultime, Peppino è nato nel 1898 e Francesco morirà a 44 anni, nel 1904.

 

Mi chiedo se ci sia qualche altra foto della nonna da bambina, forse i Pellegrino la conservano. E anche qualche foto degli antenati Pellegrino da vecchi: Giuseppe e Margherita, di cui esiste solo una foto dell’epoca del matrimonio, quella fatta a Catania nello studio Camrinafici, e il quadrisavolo Giovanni, morto a Catania nel 1882, che potrebbe essere stato ritratto da Francesco agli inizi della sua attività o da un altro fotografo in qualche occasione familiare…

E’ lui che mi ha fornito la traccia e l’impulso per risalire il corso del mistero genealogico.

 

I dagherrotipi sono stati trasmessi da zia Stella a mio padre, un cimelio di famiglia prezioso per la sua carica di ricordo, ma praticamente inutilizzabile all’epoca, se non per una stampa a contatto.

 

Una ventina d’anni fa con mio marito abbiamo allestito in casa un piccolo laboratorio fotografico artigianale e abbiamo realizzato qualche stampa, ritrovando alcuni dei personaggi ritratti da Francesco.

 

(Nulla a che vedere con la profondità e la definizione attuale di uno scanner – che tra parentesi è oggi l’unico strumento possibile per ricavare un’immagine da questo tipo di negativi, visto che i fotografi professionisti non lavorano più in modo artigianale e che le lastre sono completamente fuori dai formati standard previsti dagli apparecchi – ma almeno qualche volto familiare cominciava  a riemergere)

 

Ma all’epoca dovevo ancora capire molte cose, imparare a vedere.

 

 

Gli antenati più affascinanti e che prendevano più spazio nelle foto erano un imponente normanno dagli occhi cerulei e dai presumibili capelli rossi (ne avrò conferma poi) e un vecchio maestoso pieno di rughe, molto simile a mio padre, ma con gli occhi chiari e i capelli radi.

Mi affezionai subito a quella lignée e pensai che si trattasse dei Pellegrino, convinta che la nonna Margherita avesse preso da loro gli occhi azzurri e i capelli rossi.

Identificai il rosso normanno con Francesco e il vecchio maestoso con Giuseppe Pellegrino, autore delle lettere familiari piene di affetto per mia nonna bambina.

 

 

 

SALVATORE

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Intanto Francesco il fotografo si nascondeva dietro l’obiettivo.

Il rosso normanno dallo sguardo fiammeggiante era in realtà suo cugino e cognato Cristoforo, e l’anziano antenato era suo zio e suocero, Salvatore Montesanto, l’altro bisnonno materno di mio padre.

Mi ero fatta trarre in inganno dall’aspetto fiero ed energico, dagli occhi chiari. Nell’immaginario un antenato solido e strutturato è più rassicurante.

Ma ora che ho ristabilito il legame con il bisnonno Francesco trovo in lui un fascino sottile e malinconico.

Simile un po’ a quello dell’altro cugino, il diacono Peppino morto giovane.

 

In generale tutti i soggetti adulti ritratti da Francesco sembrano istruiti precedentemente alla naturalezza; a differenza delle foto del ramo Mingo, realizzate in studio da fotografi professionisti, che mostrano uomini fieri, ambiziosi e impettiti, dai cliché del bisnonno trapela un intento realistico. L’antenato Salvatore, con il volto rurale cotto dal sole e segnato da rughe profonde, è rappresentato in due scatti successivi due giacche diverse; persino il rude Cristoforo ammorbidisce il labbro nell’immagine catturata dal cugino, che sarà l’unica sua in età giovanile.

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Francesco, dicevamo, si nascondeva dietro l’obiettivo. Purtroppo di lui e di Lorenza non ho lastre ma solo stampe (poche, due ritratti singoli di Francesco e due di Lorenza, e nessuno in cui figurano i due sposi insieme), che hanno subito l’inevitabile ingiuria del tempo.

La più interessante, su un cartoncino che sul retro reca la dicitura “Francesco Pellegrino – Dilettante”, è un autoritratto realizzato presumibilmente verso il 1895.

Sappiamo che a Francesco non interessa che i soggetti appaiano eroici, esemplari e virili, e quindi nessuna retorica; ma rispetto ai ritratti che ha realizzato dei suoi familiari nel suo c’è qualcosa di più, un tocco di artistica malinconia.

Svagato, guarda in lontananza alla sua sinistra reggendo un libro sulla cui copertina ci potrebbero essere un bambino e una bambina.

La mano è rilassata, il braccio poggiato su un cuscino, lo sguardo distaccato.

I baffi morbidi e il cappello rurale contribuiscono a dare un tono meno pretenzioso all’insieme.

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Non so se intendesse lanciare un messaggio, e non riesco a decifrarlo completamente.

Ma sono andata in Sicilia sulle sue tracce nei giorni in cui avrebbe festeggiato il 150° compleanno.

Senza saperlo. Ho preparato il viaggio e sono partita nella settimana dal 19 al 25 luglio 2010.

Al ritorno, ho letto la copia del suo atto di nascita che mi era stata inviata dall’Archivio di Stato di Catania.

Francesco Pellegrino, di Giuseppe Pellegrino e Margherita Montesanto, nato a Nicolosi il 19 luglio 1860, dichiarato al Comune il 22 luglio dello stesso anno.

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