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A chi appartiene un antenato?

Salvatore Montesanto, Nicolosi 1811-1905

Archimede Mingo, Catania 1920-Napoli 2000

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Quando è morto zio Enrico Mingo ho scoperto che ci si può assentare dal lavoro solo per i funerali dei parenti entro il secondo grado. La segretaria della scuola mi ha spiegato che i gradi si calcolano sempre passando per lo stipite (che per me fino a quel momento era solo un elemento architettonico posto nella parte alta di una porta), e che quindi uno zio è un parente di terzo grado. Sul momento non ci ho capito nulla e ho sospettato una subdola manovra per impedirmi di rendere l’ultimo omaggio al più anziano esperantista napoletano nonché fratello maggiore di mio padre; poi mi hanno ricordato la scappatoia per gli statali, prendere un giorno di malattia. Al ritorno dalle esequie, dopo aver presentato in segreteria un certificato medico attestante che avevo battuto la testa in uno stipite e che necessitavo giorni uno di riposo e di cure – le segretarie degli studi medici sono notoriamente e pronte a certificare qualunque cosa purché gli si versi l’obolo della moneta di un euro – ho deciso di studiare a fondo la questione, in modo da non farmi più cogliere impreparata in futuro.

Ho scoperto così che per legge quando si giunge al settimo grado non c’è più parentela, e che per il calcolo dei gradi effettivamente si deve passare sempre per lo stipite, cioé per il genitore. Vale a dire che per esempio i fratelli non sono parenti di primo grado ma di secondo perché il trait d’union tra loro è il genitore; i cugini “di primo grado” sono in realtà parenti di quarto grado (perché bisogna risalire fino al nonno in comune e poi ridiscendere) e tra cugini cosiddetti di secondo grado (figli di cugini) c’è in realtà un rapporto di parentela di sesto grado, sul limite della non-parentela, quindi.

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Ho cercato di collegare queste nuove – per me – acquisizioni alle mie ricerche genealogiche.

Se ragioniamo per ascendenti diretti, 1) padre o madre, 2) nonno o nonna, 3) bisnonno o bisnonna, 4) trisnonno o trisnonna, 5) quadrisavolo o quadrisavola, 6) quintisavolo o quintisavola, già arrivati a 7) genitori dei quintisavoli non esisterebbe più parentela.

Questo da un punto di vista legale. Ma da altri punti di vista la situazione può apparire diversa. Quella bisnonna della trisnonna Barbagallo che mi ha tramandato il viso apache ad apparizione tardiva perché non dovrebbe essere più mia parente ? Quei discendenti di Antonino Mingo, fratello del mio antenato Corrado nato a Noto nel 1804, che hanno trasmesso ai loro figli una passione musicale parallela a quella di mio fratello Nicola, perché non dovrebbero essere miei parenti? Quei pronipoti del pro-prozio Cristoforo Montesanto guida sull’Etna che come me si inerpicano come capre sui rilievi urbani e non, perché non dovrebbero essere più miei parenti – e parenti di mio cugino Renato Mingo, corridore e podista? Quei nipoti di Franzo Mingo cugino di mio nonno Nicolò, Franzo che emigrò un secolo fa e trapiantò la stirpe al nord, quei nipoti idealisti e impegnati in politica, come zio Enrico lo era stato per l’esperanto, perché non dovrebbero essere più miei parenti?

Certo, con il tempo il gene si stempera, e risalendo indietro nei secoli si arriva ad un numero incalcolabile di antenati. Facendo una media semplice, con un passaggio di generazione ogni trent’anni e due genitori, quattro nonni, otto bisnonni e così via in modo esponenziale, risalendo di una decina di generazioni dal 1700 ad oggi ognuno di noi dovrebbe ritrovare 1024 trisnonni dei quintisavoli, più 512 bisnonni dei quintisavoli, più 256 nonni dei quintisavoli, e così via con tutti gli altri antenati intermedi, per non parlare dei collaterali, fratelli, cugini, zii, prozii – che pure sono importanti. Inversamente, pur non avendo una certezza matematica assoluta, se calcoliamo indicativamente per ogni antenato due figli che a loro volta abbiano avuto due figli ciascuno e così via, un antenato vissuto nel diciottesimo secolo potrebbe avere oltre a noi un altro migliaio di discendenti (e scusate se vi intrattengo con un discorso così aritmetico, è il gene di Archimede che reclama la sua parte…).

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Nonostante questa evidenza matematica e in qualche modo anche biologica che scoraggerebbe i più, alcuni fanatici si ostinano comunque a ricercare le proprie origini. Perché?

Risponderò personalmente. All’inizio mi incuriosiva l’eventualità di un gene esotico, il sangue normanno di mia nonna Margherita Pellegrino, siciliana dagli occhi azzurri e dai capelli rossi; o quella di una radice ispanica, di un hidalgo Jorge Domingo diventato nel corso dei secoli Corrado Mingo, e degli echi di tutto ciò che risuonano in me: l’attrazione per luoghi idealizzati e diversi, il piacere di immergermi in mondi fonetici inusuali…

Ma poi mi sono concentrata sulle cose più vicine, sui leit motiv familiari che sembrano ripetersi nel corso del tempo (e mi riferisco qui soprattutto al lato Mingo): necessità di circondarsi di una vasta discendenza trovandola poi rumorosa e invadente; tendenza ad imbarcarsi in ideali planetari o in ricerche ad assorbimento totale tralasciando l’impellenza quotidiana del piatto in tavola per i propri familiari; esplorazione rigorosa e approfondita delle teorie scientifiche più all’avanguardia unita a incapacità di pagare le bollette entro la scadenza e di conservarle ordinatamente in un’apposita cartellina; desiderio di approvazione pubblica degli umani ma incapacità di sopportarne la fastidiosa inconcludente presenza; tendenza a considerare tutti questi comportamenti non come sinonimo di leggerezza, stramberia, asocialità, intolleranza, egoismo, ma come lo stigma di una genialità indomita e incompresa.

I difetti o le esagerazioni familiari su cui indago sono sempre qualcosa che considero con affetto, come una parte di me, come sentimenti e moti di un grande romanzo alla G.G. Marquez che mi hanno plasmato e che continuano a muovere le fila dell’agire di diversi miei «parenti», vicini e lontani, consapevoli o non.

Quindi se affermo che un certo antenato ha agito, mettiamo, in modo inconcludente, il mio discorso non vuole essere offensivo verso di lui, ma soltanto indagatorio sulla mia inconcludenza e sui luoghi mentali in cui essa è radicata (poi magari si scoprirà che è tutto inscritto nei geni e che noi Mingo soffriamo di una carenza ereditaria di Tenacina, uno scienziato riuscirà a modificare il ciclo dell’Insistasi Inversa e saremo guariti, pagherò le bollette alla scadenza e le riporrò in una cartellina e tutte le mie ricerche e chiacchiere precedenti saranno state inutili…).

Oppure se parlo di una sorella estromessa dalla proprietà familiare, di un cognato che non prende le difese della moglie del fratello rimasta vedova, non è per istruire un processo sommario ai personaggi “cattivi”: certi eventi erano abbastanza normali in una società in cui la casa e le terre si tramandavano per linea maschile e in cui le donne non leggevano, non votavano e non avevano diritti, neanche quello di lasciare il marito. Ma l’impatto emotivo di un lutto, di uno sradicamento, di un allontanamento, restano comunque vivi e presenti.

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Magari a qualcuno può non interessare tutto ciò; si sente sganciato, il cordone ombelicale tagliato da ogni passato, doloroso o sgradevole o semplicemente inutile. E io non posso biasimarlo. Per quanto mi riguarda, mi sono svegliata abbastanza tardi. Se avessi capito prima, di venire da qualcosa, di aver bisogno di conoscere questo qualcosa, avrei fatto delle domande a mio nonno, a mia nonna, su tutti quelli che sono venuti prima di loro, avrei cercato di legarmi a doppio filo al mio passato, a quel passato da cui provengo.

In ogni caso, quando parlo delle vicende di un antenato che oltre ad essere mio è anche (spesso inevitabilmente) un antenato altrui, non c’è intento di pettegolezzo o di facile stigmatizzazione; certo, c’è un’interpretazione, ma appartiene prevalentemente alla sfera personale.

Interpretare fa soprattutto bene a me, per capire di cosa sono fatta. Ma contribuisce in parte alla ricostruzione storica, fa rivivere persone i cui resti sono ora nelle tombe o in un ossario, ricollega una storia ad un volto su una foto destinata altrimenti a restare dimenticata in fondo a un cassetto.

Quindi ricapitolando:

Per i parenti oltre il settimo grado (nipoti e pronipoti di Teodoro, Diomede, Giuseppe e Salvatore Mingo, compresi i Palmeri, Cordone, Cassone, Tavana; nipoti e pronipoti di Domenico Pellegrino tra cui i Lo Presti e i Pappalardo; nipoti e pronipoti di Cristoforo Montesanto – tutti antenati vissuti tra la seconda metà dell’800 e i primi decenni del Novecento – per non parlare dei Barbagallo, dei Bongiovanni, dei Monteforte, dei Rapisarda, e poi dei Nicolosi, dei Consoli e degli Anfuso, altre radici per ora ancora nebulose): non abbiate paura, non potrò sottrarvi l’eredità del nonno e non mi piazzerò a casa vostra per un mese con figli famelici o con un grosso cane peloso; mi interessa ricostruire un po’ di memoria familiare e se avete foto, documenti, ricordi, con uno scanner è facile condividerli senza rinunciare al possesso dell’oggetto.

Per i parenti entro il sesto grado (per esempio i figli di zio Carlo Mingo, a Roma, che praticamente non conosco): siamo ancora cugini, uno scambio di informazioni è gradito. Magari potreste scoprire di avere un passato familiare interessante (e anche se per legge siamo parenti vi risparmierò bontà mia il cane peloso).

Preciso infine che attenendoci alla parentela legale, cioé fino al sesto grado, Diomede Mingo, agronomo, che fu sindaco di Noto nel 1917 era mio parente (quinto grado), il vescovo Corrado Mingo non era mio parente (decimo grado), ma se risultasse che il Salvatore che è tra i suoi antenati è il fratello del mio bisnonno invece che il cugino omonimo allora sarebbe mio parente (sesto grado), Franzo Mingo emigrato a Vimercate non era più mio parente (ottavo grado anche lui) ma era parente di mio nonno Nicolò (sesto grado), Cristoforo Montesanto capoguida sull’Etna era mio parente (quinto grado) e anche le sue figlie Stella e Angelina, nate ai primi del secolo scorso, che andammo a trovare a Nicolosi nel 1971 con i miei genitori, erano mie parenti (sesto grado), e per finire il cugino di mia nonna Peppino Pellegrino morto nel 1975, a cui zia Stella ha scritto fino all’ultimo, era mio parente (sesto grado). Discendenti e collaterali, manifestatevi !

«E forse mi direte : “Sei proprio certo che questa leggenda sia vera ?”

Ma che importa quel che può essere la realtà fuori di me, se mi ha aiutato a vivere, a sentire che esisto e quel che sono ?»

(Baudelaire, Les fenêtres, Le Spleen de Paris)

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